Roma, 16 apr. (LaPresse) – “La prima volta che mi venne fatto il nome di Regeni fu la notte del 25 gennaio del 2016. Ricordo di avere ricevuto intorno alle 23.30 una telefonata di un professore italiano che mi disse di non avere più notizie di lui da alcune ore e che non si era presentato ad un appuntamento che avevano quella sera e il cellulare risultava spento. Immediatamente avvisai il capocentro dell’Aise in ambasciata che si attivò con i suoi contatti a cui però, non risultava alcuna notizia su Regeni. Non avemmo alcuna notizia sulle sorti di Giulio ma il ministro fece dei riferimenti alle videocamere della metropolitana del Cairo dalle quali non risultava alcun passaggio di Giulio la sera del 25 gennaio. Ricordo poi di aver ricevuto alcuni messaggi dalla tutor di Regeni presso l’università americana al Cairo. Fu lei a dirmi dove si trovava il corpo, mi consigliò di recarmi lì e di insistere affinché l’autopsia non venisse effettuata in Egitto. Mi recai personalmente nell’obitorio dove era tenuto il corpo di Giulio. Erano evidenti segni di torture, dei colpi ricevuti su tutto il corpo con ematomi e segni di fratture e tagli”. Così l’ex ambasciatore italiano al Cairo, Maurizio Massari, durante la sua testimonianza davanti alla Corte d’Assise di Roma nel processo ai quattro 007 egiziani, il generale Tariq Sabir, i colonnelli Athar Kamal e Uhsam Helmi, e il maggiore Magdi Sharif, imputati per la morte di Giulio Regeni.

© Copyright LaPresse - Riproduzione Riservata