I giudici di Palermo hanno assolto gli ex ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno e l'ex senatore di Forza Italia Marcello Dell'Utri dall'accusa di minaccia a corpo politico dello Stato

Un dialogo tra lo Stato e Cosa Nostra c’è stato, ma era mosso “da fini solidaristici (la salvaguardia della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale – e fondamentale dello Stato”: l’obiettivo era porre fine alle stragi di mafia. Lo ha scritto la Corte d’Assise d’appello di Palermo, presieduta da Angelo Pellino, nelle 2.971 pagine di motivazione della sentenza con cui, ribaltando buona parte della decisione di primo grado, ha assolto dall’accusa di minaccia a corpo politico dello Stato gli ex ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno e l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri. Le ragioni della decisione sono state rese note nella giornata del 6 agosto, poco meno di un anno dopo la lettura in aula del dispositivo, lo scorso 23 settembre. La corte ha confermato le condanne per i capi Leoluca Bagarella e Antonino Cinà.

La corte ha scartato l’ipotesi “di una collusione dei carabinieri con ambienti della criminalità mafiosa” e quella “che abbiano agito per preservare l’incolumità di questo o quell’esponente politico” e definito la trattativa come “un’improvvida iniziativa” e “un disegno certamente ambizioso che si collocava in posizione intermedia tra la vera e propria trattativa politica e una mera trattativa di polizia”: “Vito Ciancimino fu contattato, prima da De Donno poi anche da Mori personalmente, sì, certamente per acquisire da lui notizie di interesse investigativo, ma, nel contempo, anche con il dichiarato intendimento di tentare di instaurare, attraverso lo stesso Ciancimino, un dialogo con i vertici mafiosi finalizzato a superare la contrapposizione frontale con lo Stato che i detti vertici mafiosi avevano deciso dopo l’esito del maxi processo e che era culminata già, in quel momento, con la gravissima strage di Capaci“.

Il tentativo, quello di insinuarsi “in una spaccatura che si sapeva già esistente all’interno di Cosa Nostra” e “sovvertire gli assetti di potere interni all’organizzazione criminale” per favorire indirettamente “lo schieramento che, per quanto sempre criminale, appariva tuttavia, ed era, meno pericoloso per la sicurezza dello Stato e l’incolumità della collettività rispetto a quello artefice della linea stragista”. E in particolare, hanno scritto i giudici, “v’erano indicibili ragioni di ‘interesse nazionale’ a non sconvolgere gli equilibri di potere interni a Cosa Nostra che sancivano l’egemonia di Provenzano e della sua strategia dell’invisibilità o della ‘sommersione’, almeno fino a che fosse stata questa la linea imposta a tutta l’organizzazione. Un superiore interesse spingeva a essere alleati del proprio nemico per contrastare un nemico ancora più pericoloso”. Quindi, anche a dar credito ai dubbi sulla correttezza dell’operato del Ros nelle indagini per la cattura del boss Bernardo Provenzano, “se Mori e Subranni potevano avere interesse a preservare lo status libertatis di Provenzano, esso ben poteva essere motivato dal convincimento che la leadership di Provenzano, meglio e più efficacemente di qualsiasi ipotetico e improbabile patto, avrebbe di fatto garantito contro il rischio del prevalere di pulsioni stragiste (mai del tutto sopite, potendo Salvatore Riina contare sempre su un vasto consenso e su non pochi sodali rimasti a lui devoti) o di un ritorno alla linea dura di contrapposizione violenta allo Stato”.

Con riferimento infine alla posizione di Bagarella, condannato a 27 anni di reclusione, la Corte ha motivato la qualificazione del fatto come “minaccia a corpo politico dello Stato” solo tentata e non consumata: manca la prova che il ricatto di Bagarella e Brusca sia stata effettivamente veicolata da Marcello dell’Utri all’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. “Pur in assenza della prova della veicolazione della minaccia in danno del presidente Berlusconi è evidente che il reato si sia arrestato al livello del tentativo con una condotta che va in questi termini attribuita agli imputati Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca… E’ indubbio, infatti, che il progetto ricattatorio ripreso nel marzo del 1994 da questi soggetti, dopo gli arresti prima di Riina ed a seguire dei fratelli Graviano (che avevano un loro canale di comunicazione con Dell’Utri), non sia stato portato a compimento, contrariamente alla volontà degli stessi Bagarella e Brusca, soltanto perchè Dell’Utri non ha veicolato (rectius: non vi è la prova che lo abbia fatto) la minaccia fino al Governo”, hanno scritto i giudici.

 

 

© Copyright LaPresse - Riproduzione Riservata