Netanyahu: «C’è una data per Rafah». Usa, spinta per 6 settimane di stop

di Davide Frattini

Il premier incalzato a entrare dagli oltranzisti. Timido ottimismo dei mediatori sulla tregua

Netanyahu: «C’è una data per Rafah». Usa, spinta per 6 settimane di stop

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
GERUSALEMME
- Quel passo che manca alla «vittoria totale» misurato da Benjamin Netanyahu sarebbero gli ultimi chilometri quadrati di Gaza, i cubi color cemento che formano la cittadina di Rafah striminzita verso l’Egitto. Il primo ministro ha così tanto insistito nelle scorse settimane sull’offensiva necessaria per sbaragliare un paio di battaglioni di Hamas e «trionfare» che adesso gli alleati di governo gliene chiedono conto. Perché i ministri messianici e oltranzisti come Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir non possono accettare che il ritiro delle truppe dal Sud della Striscia significhi la fine dell’offensiva via terra, almeno nella forma massiccia con decine di migliaia di soldati. Chiedono una riunione d’emergenza del governo, minacciano che altrimenti potrebbero non essercene altre, sarebbero pronti ad andarsene e Netanyahu perderebbe la maggioranza.

Bibi, com’è soprannominato da alleati e avversari, li rassicura: «È stata fissata una data per l’incursione», proclama in tempo per i tg dell’ora di punta. Anche se gli americani si oppongono a un’operazione nelle zone dov’è ammassato un milione e mezzo di palestinesi, chiedono di vedere i piani di evacuazione per i civili, il presidente Joe Biden ha ribadito il suo no nella telefonata di pochi giorni fa con Netanyahu. Anche se lo stato maggiore è in questi giorni più concentrato su altri fronti, sulla possibile rappresaglia iraniana, ancora ieri Hossein Amir-Abdollahian, il ministro degli Esteri di Teheran, ha ribadito la volontà di vendicare l’uccisione di un generale dei Pasdaran a Damasco.

La Divisione 98 ha lasciato Khan Younis dopo quattro mesi di battaglie su sei di conflitto e gli abitanti tornati tra le macerie raccontano che più della loro disperazione su tutto aleggia «l’odore di morte», i palestinesi uccisi sono quasi 34 mila. Yoav Gallant, il ministro della Difesa, era stato l’unico tra i leader della coalizione al potere a mettere la faccia domenica sulla decisione di tirar fuori gran parte delle truppe e lasciare solo un presidio lungo il corridoio che va da Est, alla frontiera con Israele, al Mediterraneo e che taglia la Striscia in due. «Far riposare le truppe ci permette di preparare l’offensiva su Rafah». Già ieri però ha ricalibrato le prospettive e ha dichiarato che «si sta creando un’opportunità per la liberazione» degli ultimi ostaggi tenuti a Gaza: sono 133, tra loro meno di cento sarebbero ancora in vita. «Ci aspettano scelte difficili».

Perché David Barnea, il capo del Mossad, sta negoziando una nuova intesa per riportarli a casa. Gli americani avrebbero messo sul tavolo la proposta di sei settimane di tregua nei combattimenti in cambio della liberazione di 40 sequestrati: nel giorno dei massacri, il 7 ottobre, oltre 240 israeliani e lavoratori stranieri erano stati rapiti dai kibbutz e dalle cittadine nel sud del Paese, un centinaio è stato rilasciato con l’intesa alla fine di novembre dello scorso anno. I capi fondamentalisti avrebbero ammorbidito le posizioni — almeno secondo i mediatori egiziani — e ridotto il numero dei detenuti palestinesi da scarcerare nell’accordo.

Anche il governo di estrema destra israeliano dovrebbe accettare alcuni compromessi. I mediatori — oltre agli Stati Uniti, l’Egitto e il Qatar, sponsor finanziario e ideologico di Hamas — sperano di poter in ogni caso ottenere una pausa umanitaria con l’inizio della festa di Eid Al Fitr che chiude il Ramadan, il mese più sacro per i musulmani.

Gli israeliani, come in tutte le fasi dei colloqui indiretti, chiedono che i terroristi presentino una lista dei rapiti da rimandare indietro, Hamas in passato ha ammesso di aver perso le tracce di alcuni prigionieri, non avrebbero più contatti con i carcerieri.


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8 aprile 2024 (modifica il 8 aprile 2024 | 22:00)