Trattativa Stato-mafia, la Cassazione conferma: «Assolti gli ex Ros e Dell’Utri per non aver commesso il fatto»

di Giovanni Bianconi

Gli imputati sono stati assolti in via definitiva. In primo grado, nel 2018, la corte d’assise di Palermo condannò tutti gli imputati

Trattativa Stato-mafia, la Cassazione conferma: «Assolti gli ex Ros e Dell’Utri per non aver commesso il fatto»

La corte di Cassazione ha assolto in maniera definitiva gli imputati del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, con la formula «per non aver commesso il fatto», annullando così anche la sentenza di appello che pure aveva dichiarato non colpevoli gli accusati, ma perché il fatto commesso «non costituiva reato».

Ora invece, come chiedevano gli imputati, è caduto non solo l’impianto accusatorio ma anche, sembra di capire, la valutazione fatta dalla Corte d’Assise d’Appello di Palermo degli avvenimenti addebitati - fra gli altri - a gli ex ufficiali dei carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno nel periodo delle stragi mafiose, fra il 1992 e il 1994.

In primo grado, nel 2018, la corte d’assise di Palermo condannò tutti gli imputati: 28 anni di carcere al boss Leoluca Bagarella (cognato di Totò Riina), 12 al mafioso Antonino Cinà, il «postino» delle richieste di Cosa nostra alle istituzioni, e pena prescritta per il pentito Giovanni Brusca; ma soprattutto 12 anni per gli ex comandanti del Ros dei carabinieri Mario Mori e Antonio Subranni, e 8 per l’ex colonnello Giuseppe De Donno, oltre ai 12 anni per l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, presunto mediatore dell’ultima fase della trattativa durante il primo governo berlusconi (1994). Tre anni più tardi, nel 2021, la corte d’assise d’appello confermò le condanne per i mafiosi ma assolse sia i carabinieri che Dell’Utri. I tre ex ufficiali del Ros perché «il fatto non costituisce reato», mentre il politico per non averlo commesso. Nella sostanza i giudici d’appello avevano confermato l’esistenza della trattativa tra i carabinieri ed esponenti di Cosa nostra, arrivando a sostenere che dopo le stragi del 1992 gli investigatori, con «una iniziativa quanto mai improvvida, oltre che intrapresa in totale spregio ai doveri inerenti al loro ufficio e ai loro compiti istituzionali», avevano finito per siglare «una sorta di ibrida alleanza» con la componente più moderata di Cosa nostra, guidata dall’altro boss (ugualmente colpevole delle bombe) Bernardo Provenzano.

Tuttavia ciò avvenne «senza necessità di stipulare alcun patto, ma solo in ragione di un’obiettiva convergenza di interessi». E tutto questo era avvenuto – particolare che valse l’assoluzione per i carabinieri – senza alcuna volontà di rafforzare la mafia e la sua strategia stragista, né per «creare le basi di un accordo ‘politico’ con gli stessi autori della minaccia mafiosa»; al contrario l’obiettivo era «disinnescare la minaccia mafiosa, incuneandosi con una proposta divisiva in una spaccatura che si confidava già esistente all’interno di Cosa nostra, per volgerla a favore di una disarticolazione e neutralizzazione dello schieramento e della linea stragisti». Niente dolo, dunque, e niente reato. Per Dell’Utri, invece, l’assoluzione era arrivata «per non aver commesso il fatto».

La ricostruzione degli stessi giudici d’appello e i giudizi tutt’altro che lusinghieri verso la loro iniziativa di prendere contatto con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino (subito dopo la strage di Capaci) avevano spinto Mori e De Donno e fare anch’essi ricorso contro la sentenza d’appello, nonostante l’assoluzione. Al pari dei mafiosi e della Procura generale di Palermo, che insisteva per la condanna di tutti gli imputati. Ma davanti ai giudici di Cassazione l’accusa contro i rappresentanti delle istituzioni s’è ritrovata di fatto senza accusa: i pm della Procura generale di terzo grado, infatti, hanno sì chiesto l’annullamento del verdetto con rinvio a una nuova corte d’assise d’appello, ma solo perché non hanno ritenuto «il fatto» (cioè la presunta minaccia a un Corpo politico dello Stato) sufficientemente provato; come se chiedessero una nuova valutazione che potesse portare a un’assoluzione ancor più radicale: il fatto non sussiste o comunque non è stato commesso dagli imputati, al di là della volontà o meno di aiutare i mafiosi. Ora la Cassazione ha stabilito che quel «fatto» non è stato commesso. Per i mafiosi, essendo stata derubricata l’accusa a «tentata» minaccia al Corpo politico dello Stato, è stata dichiarata la prescrizione del reato.

27 aprile 2023 (modifica il 27 aprile 2023 | 21:09)