Il muro del silenzio è crollato. Ilaria ha vinto. La verità, la giustizia hanno vinto. Uno dei carabinieri imputati nel secondo processo per la morte di Stefano Cucchi ha raccontato il pestaggio del ragazzo da parte di due suoi colleghi. Sono tutti indagati per abuso di ufficio e omicidio preterintenzionale. Vale a dire che volevano, sì, fare del male a Stefano, ma non pensavano di causarne addirittura la morte.

In tanti devono chiedere scusa alla famiglia Cucchi. Nella Direttiva europea del 2012 sulle vittime di reato la parola “rispetto” o qualche suo derivato compare 29 volte. “Gli Stati membri assicurano che le vittime siano riconosciute e trattate in maniera rispettosa”, “di trattarle con dignità e in modo rispettoso e sensibile”, e via dicendo. Bene: Ilaria Cucchi e i suoi genitori troppo spesso in questi anni hanno subito un trattamento tutt’altro che rispettoso. Troppo spesso hanno dovuto ricordare a se stessi di non essere loro gli accusati, di non essere loro ad aver commesso qualcosa al di fuori della legge e del rispetto per il prossimo. Troppo spesso sono stati calunniati, guardati con dispregio, perfino querelati.

Ricordo, durante un momento di pausa da un’udienza del vecchio processo, un alto funzionario dello Stato – lì chiamato a testimoniare – trovarsi a passare accanto a Ilaria lungo il corridoio esterno all’aula bunker, alzare il naso all’aria, metter su una faccia sdegnata, guardare diritto davanti a sé quasi che lei non esistesse. Qualsiasi principio di pietà umana o solamente di buona educazione (potrà scegliere lui tra i due, se mai si riconoscerà nella descrizione) avrebbe spinto chiunque a tendere la mano, a salutare, a esprimere dispiacere per la circostanza e per un fratello morto.

Non è la sola volta che tutto questo accade. Ricordiamo un sindacato di polizia battere le mani ai poliziotti assassini di Federico Aldrovandi e protestare sotto le finestre della madre colpevole di aver voluto sapere chi le aveva strappato il figlio diciottenne a calci. Ricordiamo la compagna di Aldo Bianzino trattata come una criminale petulante e noiosa perché chiedeva quando avrebbe potuto rivedere Aldo e le veniva gridato che doveva aspettare l’autopsia.

Oggi Ilaria ha vinto. Oggi abbiamo vinto tutti noi. L’omicidio di Stefano Cucchi non è un delitto privato. È qualcosa che ci riguarda. Poiché Stefano è morto mentre era nelle mani di quello Stato che lo avrebbe dovuto custodire e che dovrebbe rappresentare ciascuno di noi. L’Italia delle persone per bene sta dalla parte di chi non usa la violenza, dalla parte dei tantissimi agenti onesti delle forze dell’ordine ma non dei disonesti. Non sta “sempre dalla parte di polizia e carabinieri”, come recitano i tweet del nostro ministro dell’Interno. Questa Italia saluta oggi una grande pietra posta sul cammino della verità e della giustizia, in un processo che era diventato un simbolo contro l’omertà e gli abusi.

Adesso abbiamo tutti qualcosa da difendere. Stiamo attenti a non farcelo portare via mentre siamo distratti. Non sempre purtroppo ci sono una Ilaria Cucchi e un Fabio Anselmo. Non sempre c’è tanta tenacia, tanto coraggio, tanta capacità di farsi ascoltare. Ma qualunque vittima, anche quella che si ritrova ad avere meno risorse, ha diritto non solo, come dovrebbe essere ovvio, alla verità e alla giustizia, ma anche al rispetto. Ilaria ci ha insegnato che possiamo esigerlo anche quando dall’altra parte ci sono le forze dell’ordine. Non dimentichiamolo mai. Diamo forza, diamo voce, indigniamoci al fianco di ogni persona che ha subito o che mai dovesse subire abusi da parte di una pubblica divisa.

Articolo Precedente

Stefano Cucchi, dall’arresto alla racconto del pestaggio: nove anni d’indagini e sette processi senza colpevoli

next
Articolo Successivo

Stupro Firenze, carabiniere condannato per aver violentato le due studentesse Usa. Il collega rinviato a giudizio

next