Quando, quasi quattro anni or sono, il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ebbe l’idea di un piano per rilanciare l’economia e l’occupazione europee,  molti reagirono con sorrisini di sufficienza: prospettò 315 miliardi di euro d’investimenti nell’arco di tre anni, mobilitando però meno di 20 miliardi di euro comunitari (il rapporto era di uno a 18).

Dove voleva andare Juncker, mettendoci così pochi soldi? Era proprio quello il volano per accelerare la crescita e creare posti di lavoro? Merito, o meno, del “piano Juncker”, 40 mesi dopo, l’Unione, sia pure in modo discontinuo e disomogeneo, ha fatto passi avanti ed è fuori dalla crisi.
Adesso che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump riprende, con dimensioni americane, l’idea di Juncker e annuncia un piano per le infrastrutture che mobiliterà da 1500 a 1800 miliardi di dollari in dieci anni, partendo da 200 miliardi pubblici (federali e statali: il rapporto è di uno a nove), c’è da chiedersi se sorridere anche di Trump o se, piuttosto, rivalutare Juncker. Ieri, alla Casa Bianca è stato il giorno dei numeri. Scrive sull’Ansa Claudio Salvalaggio: “Davanti ad una platea di sindaci e governatori, Trump ha svelato l’atteso piano per rinnovare le ‘fatiscenti’ infrastrutture americane, uno dei talloni d’Achille degli Usa e una delle sue promesse elettorali”.
Il piano servirà – parole di Trump, dal discorso sullo stato dell’Unione del 29 gennaio – “a costruire nuovi scintillanti ponti, strade, autostrade, ferrovie e canali attraverso tutto il nostro Paese”, dopo – parole di ieri – avere “stupidamente speso settemila miliardi in Medio Oriente”, nelle guerre non vinte in Afghanistan, Iraq, Siria – ennesima critica ai suoi predecessori, come se i suoi raid aerei fossero gratis.

Nel segno dell’ America first, Trump vuole realizzare il piano “con cuore, mani e coraggio americani“, ma non disdegna investimenti stranieri: “Ci sono molti paesi, molte persone che vogliono davvero mettere un sacco di soldi nelle infrastrutture”. Li attira di certo la generosità dell’amministrazione, che taglia le tasse alle imprese ed è pure pronta ad appaltare ai privati persino la Stazione spaziale internazionale. Il piano è parte della proposta di bilancio per il 2019 della Casa Bianca: complessivamente, spese per 4.400 miliardi di dollari, con un aumento degli stanziamenti militari di 686 miliardi di dollari (+13%) e previsioni di 18 miliardi per il muro al confine col Messico e 23 miliardi per la sicurezza delle frontiere, mentre i programmi sociali e sanitari subiscono tagli. Ci sono soldi per ritornare sulla Luna, ma non ce ne sono per fronteggiare il cambiamento climatico.

Abbinati alla massiccia riduzione del gettito fiscale, i conti finanziari dell’amministrazione Trump, che dovrebbero far inorridire ogni conservatore, prevedono un aumento del debito di mille miliardi di dollari quest’anno (984, per la precisione) e di settemila miliardi di dollari in dieci anni. Dati che stridono con le parole del presidente che definisce il debito “l’araldo di un futuro desolato”; ma che sono in linea con l’immagine che Trump dava di se stesso imprenditore: lui era il “re del debito”. Critiche e perplessità s’intrecciano, tra il Campidoglio di Washington e Wall Street a New York. Se c’è un filo conduttore, è quello di accontentare tutta la composita galassia elettorale dei repubblicani e del magnate: sostenere la manodopera americana, restituire potere decisionale ai governi statali e locali, rimuovere le regole giudicate inutili e accorciare i tempi per ottenere i permessi, rendendo marginale la regia federale. Una deregulation che inquieta per primi gli ambientalisti (ma non solo).

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Israele, polizia israeliana chiede l’incriminazione per corruzione del premier Netanyahu

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