21 ottobre 2020 - 16:00

Processo «piastra» Expo, per Sala dichiarata la prescrizione anche in appello. Il legale: il suo merito sociale è già stato riconosciuto

La vicenda dei due verbali retrodatati che servirono a sostituire due commissari incompatibili nella gara: in primo grado era stato condannato a sei mesi, convertiti in una pena pecuniaria di 45 mila euro

di Luigi Ferrarella

Processo «piastra» Expo, per Sala dichiarata la prescrizione anche in appello. Il legale: il suo merito sociale è già stato riconosciuto
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Resta ora anche in Appello la prescrizione maturata in febbraio e alla quale il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, non aveva rinunciato quando gli aveva propiziato appunto l’estinzione della sua condanna in primo grado nel luglio 2019: la Corte d’Appello di Milano per un verso non ha ritenuto (come chiedeva la difesa) di assolvere nel merito il sindaco di centrosinistra di Milano, ma per altro verso ha sposato la scelta nel 2019 del Tribunale di concedergli la rara attenuante d’«aver agito per motivi di particolare valore sociale» (che gli vale appunto la conferma della conversione dei 6 mesi di pena in 45.000 euro di sanzione pecuniaria coperta però intanto dalla intervenuta prescrizione) allorché nel 2012 commise il reato di «falso ideologico».

Cioè allorché firmò il 31 maggio 2012, quale commissario straordinario di Expo 2015, la retrodatazione al 17 maggio 2012 di due verbali (redatti non si è mai capito esattamente da chi dentro Expo 2015 o dentro Ilspa-Infrastrutture Lombarde) di annullamento e sostituzione dei commissari della gara d’appalto per la «Piastra» di Expo, tra i quali lo staff legale di Ilspa paventava la futuribile incompatibilità di due membri, con possibili letali ricorsi al Tar delle imprese perdenti e conseguente slittamento dei tempi ormai incompatibili con l’apertura l’1 maggio 2015.

Anche per i giudici d’Appello Martini-Cazzaniga-Lai, dunque, come per i colleghi di primo grado «non c’è spazio logico per ritenere che, prima dell’apposizione della firma», Sala «non avesse letto o avesse letto distrattamente» quei documenti e «non gli fosse balzata all’occhio subito l’irregolarità della procedura». Al contrario, Sala — come sostenuto dai sostituti procuratori generali Vincenzo Calia e Massimo Gaballo — «era certamente consapevole del fatto che si accingeva, nel momento in cui apponeva la firma, a creare degli atti retrodatati ad epoca antecedente alla prima riunione della commissione giudicatrice del 18 maggio 2012». E «li ha sottoscritti condividendo la soluzione alla quale era pervenuti i tecnici e la loro responsabilità, consapevole delle illecite retrodatazioni e quindi della surrettizia creazione in data 31 maggio 2012 di documenti che alla data del 17 maggio 2012 non erano esistenti».

Ma perché l’ha fatto? In Tribunale i giudici avevano ravvisano pacifico che Sala non avesse inteso avvantaggiare o danneggiare alcuno dei concorrenti alla gara, mentre «è emersa la sua volontà solo di assicurare la realizzazione in tempo utile delle infrastrutture necessarie per il successo» di Expo 2015, «pena il vero e proprio fallimento della manifestazione». Ed è qui che il Tribunale l’anno scorso, ed evidentemente anche oggi la Corte d’Appello, gonfiano il giubbino salvagente di Sala con l’«attenuante di scarsa applicazione» (8 casi in giurisprudenza) del «particolare valore sociale» dell’azione pur illecita. Per misurare questo valore sociale, i giudici (richiamandosi a una sentenza di Cassazione del 2010) devono però ricorrere allo sdrucciolevole termometro dei «motivi ritenuti preminenti dalla coscienza pubblica», intorno ai quali vi sia «un generale consenso». Che «realizzare l’evento Expo» coagulasse questo «generale consenso» nella «prevalente coscienza collettiva» i giudici di primo grado (Paolo Guidi, Angela Minerva e Chiara Valori) avevano ricavato dai «numerosi successivi atti normativi»: i quali, emanati anche da maggioranze politiche di diverso colore, «confermano l’attenzione che lo Stato italiano ha dedicato alla manifestazione, consapevole della rilevanza internazionale dell’Expo e degli interessi in gioco, economici e non». Ed è immaginabile che analoghe saranno le motivazioni della sentenza d’Appello.

A perorarne la condanna a 13 mesi erano stati i sostituti pg Massimo Gaballo e Vincenzo Calia dopo che la loro Procura generale, diretta all’epoca da Roberto Alfonso, con mossa rara il 10 novembre 2016 tramite il pg Felice Isnardi aveva disposto l’avocazione del fascicolo: i pg della Procura generale lo avevano cioè tolto ai pm della ritenuta inerte Procura della Repubblica, e vi si erano sostituiti indagando Sala il 15 dicembre 2016, ritenendo limitativa la precedente ottica dei pm Filippini-Pellicano-Polizzi secondo la quale, in nome dell’«unico interesse di finire i lavori Expo entro aprile 2015», era stata «arretrata la soglia della legittimità dell’agire amministrativo» in una «deregulation dettata dall’emergenza».

L’avocazione aveva reso sempre più travagliata una inchiesta penalizzata già a metà 2014, nei suoi possibili sviluppi, dallo scontro tra l’ex procuratore Edmondo Bruti Liberati (poi in pensione) e l’allora suo vice Alfredo Robledo (poi disciplinarmente rimosso dal Csm per i rapporti con l’avvocato della Lega, Domenico Aiello): braccio di ferro ancor più controverso dopo le parole nel 2015 del premier Renzi su «Cantone, Sala e la Procura di Milano che ringrazio per aver gestito la vicenda Expo con sensibilità istituzionale». Sulla retrodatazione, però, neppure Robledo aveva indagato Sala 7 anni fa quando ad additarla ai pm era stato un rapporto della GdF sulle intercettazioni: le stesse in base alle quali i difensori Salvatore Scuto e Stefano Nespor hanno sempre argomentato che «Sala non decise di retrodatare i verbali, non fu informato dell’asserita opportunità di farlo, non era consapevole che si sarebbe fatto, non predispose né concertò i nuovi verbali».

Per la difesa, non solo il falso è giuridicamente innocuo, nel senso che «non avrebbe potuto ledere in concreto la fede pubblica intesa in senso meno formalistico e più costituzionalmente orientato», ma «il primo precipitato etico che si ricava davanti alla condanna è un senso di ingiustizia: pure per i giudici di primo grado – aveva riassunto Scuto - Sala non partecipò alle discussioni su come risolvere un pseudoproblema, eppure Sala viene condannato da solo, e solo per la massima di esperienza per cui, se ha firmato, allora non poteva non sapere. Ma le massime di esperienza perdono valore se fuori contesto»: ad esempio «Sala faceva affidamento sul Rup-Responsabile unico del procedimento, Chiesa, che qui in aula ha testimoniato di non avergli detto nulla perché non percepiva illeceità.

Allora perché non credere alla buonafede di Sala?». «Sala non può volere la botte pieno e la moglie ubriaca – aveva obiettato il pg Gaballo -, se vuole l’assoluzione nel merito deve rinunciare alla prescrizione». Cosa che il sindaco non ha fatto, preferendo non rischiare (in caso di accoglimento del ricorso del pg) che senza speciale attenuante potesse rivivere la pena di 6 mesi. Il sindaco, prosciolto nel 2018 dall’abuso d’ufficio nell’aver affidato senza gara alla Mantovani spa la fornitura di 6.000 alberi di Expo, sulla retrodatazione ripetè nell’interrogatorio del 15 aprile 2019 in Tribunale di «non ricordarlo come uno dei passaggi più rilevanti di Expo. Escludo di aver sempre riguardato dentro le migliaia di pagine di migliaia di atti: non è che firmassi senza guardare, ma la mia era una verifica sommaria, sulla fiducia che i miei tecnici capaci avessero verificato tutto».

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