5 luglio 2019 - 13:20

Piastra Expo, Sala condannato a 6 mesi, pena convertita in multa. «Resterò sindaco»

Convertiti in una pena pecuniaria di 45mila euro. Da commissario straordinario avrebbe commesso falso ideologico per la presunta retrodatazione di due verbali. Riconosciuta l’attenuante di aver agito «per motivi di particolare valore sociale»

di Luigi Ferrarella

Beppe Sala in aula all’ultima udienza del processo (foto Maule/Fotogramma/Ansa) Beppe Sala in aula all’ultima udienza del processo (foto Maule/Fotogramma/Ansa)
shadow

Il processo a Beppe Sala, che per la Procura di Milano non si sarebbe dovuto mai fare, finisce in primo grado con la condanna del sindaco di Milano, seppure già ipotecata da quasi certa prescrizione già fra 4 mesi: l’ex commissario straordinario di Expo 2015 è stato condannato a 6 mesi (convertiti in una pena pecuniaria di 45 mila euro) dalla decima sezione del Tribunale per «falso ideologico», per aver firmato il 31 maggio 2012, ma «con la data del 17 maggio», due atti ideati per sostituire due commissari della più importante gara di Expo (la cosiddetta «Piastra» da 272 milioni) in fretta e furia, senza dover rendere pubblica la paventata ragione di loro incompatibilità rispetto ad altri incarichi, e soprattutto senza rifare l’intera procedura che altrimenti avrebbe rischiato di far saltare il già affannato cronoprogramma. Il Tribunale in ciò ha tuttavia riconosciuto a Sala, oltre che le attenuanti generiche, anche la speciale attenuante dell’aver agito, nel commettere il reato, «per motivi di particolare valore sociale».

Toccherà dunque al sindaco, oltre che valutare se proseguire o meno il proprio incarico politico («Questa sentenza non produrrà effetti sulla mia capacità di essere sindaco di Milano», ha dichiarato), scegliere poi in vista del processo d’Appello se rinunciare o meno alla prescrizione, che altrimenti maturerà comunque già a novembre 2019. «Una sentenza del genere, dopo sette anni, per un vizio di forma, allontanerà tanta gente per bene dall’occuparsi dalla cosa pubblica», ha commentato a caldo Sala, il cui coimputato Angelo Paris è stato invece assolto per «non aver commesso il fatto». Assolti anche da differenti imputazioni di tentato abuso d’ufficio e di turbativa d’asta l’imprenditore Piergiorgio Baita e l’ex direttore generale di Ilspa-Infrastrutture lombarde Antonio Rognoni.

La condanna non produce alcun effetto collegato alla legge Severino, che per questo reato comporterebbe la decadenza del sindaco soltanto per condanne definitive (non solo in primo grado come questa) superiori a 2 anni di pena. A sostenere la condanna di Sala sono stati i sostituti procuratori generali Massimo Gaballo e Vincenzo Calia dopo che proprio la Procura Generale diretta da Roberto Alfonso, con mossa rara, il 10 novembre 2016 tramite il pg Felice Isnardi aveva disposto l’avocazione del fascicolo: i pg della Procura Generale lo avevano cioè tolto ai pm della ritenuta inerte Procura della Repubblica e vi si erano sostituiti con l’iscrizione di Sala nel registro degli indagati il 15 giugno 2017, ritenendo limitativa la precedente ottica dei pm Filippini-Pellicano-Polizzi secondo la quale, in nome dell’«unico interesse dei manager Expo» dell’attuale sindaco Sala, e cioè «finire i lavori entro aprile 2015», era stata «arretrata la soglia della legittimità dell’agire amministrativo» in una «deregulation dettata dall’emergenza» ma priva di rilievo penale.

Era così iniziato un nuovo capitolo giudiziario della già travagliata storia di una inchiesta penalizzata a metà 2014, nei suoi possibili sviluppi, dallo scontro tra l’ex procuratore Edmondo Bruti Liberati (poi in pensione) e l’allora suo vice Alfredo Robledo (poi disciplinarmente trasferito dal Csm per i suoi rapporti con l’avvocato della Lega, Domenico Aiello): braccio di ferro che fu cornice di controverse interpretazioni, tra le quali nel 2015 le parole del presidente del Consiglio Renzi su «Cantone, Sala e la Procura di Milano che ringrazio per aver gestito la vicenda Expo con sensibilità istituzionale». Già sette anni fa l’ipotesi di «falso» era stata prospettata ai pm da un rapporto della Guardia di Finanza che aveva evidenziato la difformità tra una serie di telefonate intercettate il 30 maggio 2012 su come sostituire i commissari forse risultati incompatibili, e invece la data apparente del provvedimento di annullamento della nomina dei commissari, 17 maggio 2012, «giacché è palese — scriveva la Gdf — la retrodatazione».

Ma nemmeno Robledo e i pm del suo pool all’epoca avevano ritenuto di indagare Sala o altri per questa vicenda, ritenendo che la retrodatazione costituisse una sorta di «falso innocuo», che cioè non avesse né sfavorito né favorito alcuno dei partecipanti, visto che i due commissari incompatibili avevano partecipato a una sola seduta nella quale erano stati verificati solo i titoli formali dei concorrenti ma non erano state aperte le buste delle offerte. Valutazione evidentemente difforme da quella che si ritroverà fra tre mesi nelle motivazioni della condanna emessa oggi dal presidente Paolo Guidi con le giudici Angela Minerva e Chiara Valori.

La difesa del sindaco, con gli avvocati Salvatore Scuto e Stefano Nespor, argomentava invece che il reato «non sussiste» intanto perché «non c’era alcuna incompatibilità» dei commissari Molaioni e Acerbo da sanare con la loro sostituzione, e poi perché il falso materiale, cioè la firma di Sala, era «innocuo» in quanto «inidoneo in concreto», tra il 15 maggio 2012 (presentazione delle offerte) e il 4 giugno 2012 (primo momento valutativo) «a ledere l’interesse alla fede pubblica tutelato dalla norma», visto che in quei 14 giorni si sarebbe potuto cambiare i commissari «in ogni momento»: inoltre «Sala non era consapevole» del movente, cioè del «diffuso (benché infondato) timore» dentro Ilspa-Infrastrutture Lombarde che la non sostituzione dei due commissari innescasse ricorsi delle aziende perdenti nella gara, e in definitiva per la difesa l’istruttoria aveva dimostrato che «Sala non ha deciso di retrodatare i verbali, non era stato informato dell’asserita opportunità di farlo, non era consapevole che si sarebbe fatto, non ha predisposto i nuovi verbali nè concertato il contenuto, e non li ha sottoscritti una seconda volta a casa».

Il sindaco, per parte sua, sottoponendosi all’interrogatorio in Tribunale il 15 aprile scorso, aveva più volte ripetuto di non ricordare con precisione il percorso e il momento di quelle due libere: «Ho firmato migliaia di atti, ancora oggi non lo ricordo come uno dei passaggi più rilevanti della storia di Expo», anche perché «per me l’importante era che Chiesa o Paris o l’avvocato Mazzarri ne avessero verificato il contenuto. Escludo di aver sempre riguardato dentro le migliaia di pagine di migliaia di atti: non è che firmassi senza guardare, ma la mia era una verifica sommaria, sulla fiducia che i miei tecnici capaci avessero verificato tutto». Questa di oggi è la prima condanna di Sala. Il 29 marzo 2018, infatti, la gip Giovanna Campanile lo aveva invece prosciolto «perché il fatto non sussiste» dall’accusa di «abuso d’ufficio» (modificata dalla Procura generale dall’iniziale ipotesi di «turbativa d’asta») allorché nel 2013, come commissario Expo, fece uso dei poteri di deroga (riconosciutigli da apposite ordinanze di Palazzo Chigi) per non effettuare una gara europea, ma affidare direttamente all’azienda Mantovani una parte della fornitura di «essenze arboree», cioè degli alberi da piantumare sulla «Piastra» fondante tutta l’esposizione. Proscioglimento confermato dalla Corte d’Appello il 25 gennaio 2019.

In precedenza, nel marzo 2017 la gip Laura Marchiondelli aveva archiviato una inchiesta penale per «falso ideologico» a carico di Sala (e nel contempo aveva tramesso gli atti al prefetto per una sanzione amministrativa da 1.000 a 10.000 euro) per l’omissione dell’allora amministratore delegato di Expo che il 19 febbraio 2015, nell’autocertificazione patrimoniale richiesta ai titolari di cariche pubbliche dal decreto legislativo 33/2013, non inserì la proprietà del 20% della Kenergy spa, del 18% della Tunari Real Estate srl in Romania, di una casa in Svizzera, e di due fabbricati (una villa e una pertinenza) edificati nel 2014 a Zoagli (Genova) su un terreno invece dichiarato da Sala. Ancora prima, il 12 gennaio 2016, il gip Claudio Castelli aveva archiviato Sala per «l’affidamento diretto e a condizioni vantaggiose» a Eataly Distribuzione srl di Oscar Farinetti nel giugno 2013 del servizio pubblico di ristorazione in 2 dei 10 edifici lungo il Decumano di Expo: ciò perché non risultava «univocamente dimostrabile l’elemento psicologico richiesto dal reato di abuso d’ufficio» in quanto, «anche in presenza di un indiscutibile vantaggio contrattuale per Eataly», per il giudice non era dimostrabile che Sala avesse «agito intenzionalmente per procurare un vantaggio ingiusto» a Farinetti, «non emergendo motivi sotterranei» ed anzi essendo «tangibile anche l’interesse pubblico di Expo ad avere Eataly tra i propri partner».

Venerdì mattina, in apertura dell’ultima udienza in Tribunale, c’è stato un durissimo scontro tra accusa e difesa. Il sostituto procuratore generale Massimo Gaballo, in replica all’arringa di un mese fa degli avvocati di Sala, ha accusato la difesa del sindaco di «maldestri tentativi di gettare discredito e infangare la pubblica accusa», di «stravaganti interpretazioni e arrampicate sugli specchi», di «induzioni in errore delle risposte dei testi attraverso forzature distorsive» e di «interesse a nascondere qualcosa». E riguardo alla inconsapevolezza, asserita da Sala, alla firma degli atti retrodatati, il pg ha ironizzato: «Faremmo un grave torto al dottor Sala se gli attribuissimo una tale negligenza e superficialità».

Subito dopo, con Sala presente in aula dall’inizio dell’udienza, il suo legale Salvatore Scuto ha replicato al pg lamentando la mancanza di fair play per il non deposito delle otto pagine di memoria del pg neanche alla vigilia dell’udienza: «Ennesima sortita non consona alle buone condotte che dovrebbero ispirare i rapporti tra le parti. Forse perché - ha ironizzato l’avvocato - questo ufficio è poco aduso alla normale dialettica dibattimentale e da tre anni verifichiamo che incorre in alcune cadute di stile». Nel merito, il difensore ha ribattuto al pg che «il continuo uso dell’avverbio “certamente” ha in realtà come unico elemento certo l’esclusione della prova di una consapevolezza del dottor Sala al momento della firma di quei documenti, e tantomeno di una sua partecipazione a una decisione rimasta orfana di paternità anche dopo questo processo». E il collega amministrativista di Scuto, l’avvocato Stefano Nespor, ha invitato i tre giudici del tribunale: «Mettetevi nei panni di Sala all’epoca, circondato da avvocati incapaci che gli fornirono una soluzione sballata».

© RIPRODUZIONE RISERVATA
ALTRE NOTIZIE SU CORRIERE.IT