Il virus cancella Wimbledon, come negli anni delle due guerre

Il tennis aspetta di tornare nel Tempio ma le condizioni non consentivano altra scelta

Il virus cancella Wimbledon, come negli anni delle due guerre

Lo ricorderemo come il giorno in cui il tennis si è spento. Perché rimandare, sospendere o annullare Indian Wells, Miami, gli Internazionali d’Italia e persino Parigi è un conto. Ma cancellare Wimbledon - anche se solo per un anno, come ha deciso oggi l’All England Club  - significa mettere il tennis nel cassetto. Per il suo secolo e mezzo di storia, per le sue 133 edizioni, perché senza un campione che entra sul Centre Court all’una del primo lunedì calpestando l’erba più famosa del mondo, è come se tutto il tennis fosse finito in quarantena. In isolamento forzato. Come negli anni delle due guerre, 10 in totale, in cui il torneo non si era disputato, fra il 1915 e il 1918 e fra il 1940 e il 1945. Sembra un po’ di esserci tornati, a quel 1940 quando nei parcheggi del Club si allevavano galline e maiali, e sul Centre Court sfregiato da una bomba della Luftwaffe risuonavano le urla del sergente del 54esimo reggimento East Surrey che guidava le esercitazioni. Anche questa è una guerra: contro un nemico invisibile che sgancia minuscole, letali bombe chimiche che viste al microscopio sembrano mine di profondità, pronte a sabotare da dentro la passione, la libertà, la vita di tutti noi.

Le condizioni non consentivano altra scelta che l’annullamento. Il virus sta ancora impazzando nel mondo, in Gran Bretagna è lontano dall’aver raggiunto il picco e chissà quando mai lo raggiungerà. Ipotizzare a luglio gli spostamenti di persone che sono necessari a dare un senso ai Championships era impossibile. Di giocare a porte chiuse non se ne è mai veramente parlato, rimandare ad agosto o addirittura più tardi sarebbe stato un salto nel buio: per il clima, per le condizioni dei campi, per le ore in meno di luce utili al gioco. Un salto che fra l’altro avrebbe messo a rischio la copertura assicurativa che gli organizzatori di Wimbledon, con la lungimiranza logistica e finanziaria tipica di chi ha gestito un impero, unici fra i tornei dello Slam, si erano garantiti anni fa. Salta un giro d’affari che supera i 350 milioni di euro, restano a casa 6000 persone dello staff, 3200 giornalisti e 500 mila probabili spettatori. Ma è giusto così.

Un anno senza Wimbledon è un lutto sportivo per tutti, a partire da Roger Federer, che sul verde aveva previsto di rientrare dopo la pausa per l’intervento al ginocchio, e che ora a vincere il suo nono titolo, il 21 esimo Slam, dovrà riprovarci, se vorrà, nel 2021: a un mese dai 40 anni. Una sfida tostissima, anche perché il calendario 2021 potrebbe essere ancora più affollato. Ma Roger - come Nadal, come Djokovic, come Murray che pure sognava un grande addio a Church Road - sfide del genere sono abituati a raccoglierle.

In calendario restano per ora gli US Open, ma con Flushing Meadows ridotto per ora ad un ospedale da campo, e si fa spazio l’ipotesi di una stagione riprogrammata, per quanto possibile, fra settembre e dicembre. Ma sono tutte idee, tutti esercizi di fantatennis a cui manca il fondamento essenziale: la data in cui il tennis ripartirà. Non sappiamo quando avverrà realmente. Ma per noi, per tutti quelli che amano il tennis, il nuovo inizio simbolico, la riaccensione della fiaccola, non potrà che essere l’anno prossimo, quando si apriranno i Doherty Gates, sul Centre Court il silenzio lo faranno le persone, non le sedie vuote, e il giudice di sedia pronuncerà le parole che prevede il rito: «Ready? Play». 

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