Sarà proprio perché Alberto Sordi, nella narrazione corrente che lo riguarda, ritrae «l’italiano medio» in tutte le sue caratteristiche, i mali soprattutto, ma anche le impennate d’orgoglio. Però, le piccolezze prevalgono, nella rappresentazione che Sordi dà dei propri connazionali: certo equilibrandole con il suo sconfinato talento. Un talento che è purtroppo molto lontano nel tempo. In un momento così delicato per l’inconscio personale e collettivo, gli spettatori italiani non devono avere tanta voglia di essere messi di fronte a chi sa così bene rappresentare la parte peggiore di loro stessi. E quindi il film tv «Permette? Alberto Sordi», Rai1, è stato seguito, sì, ma con molta moderazione, e battuto da «Harry Potter e il calice di fuoco», su Italia 1. Rete che ha deciso di trasmettere tutta intera la saga dai libri della Rowling, 4 milioni 226 mila spettatori per Sordi, 15,1 di share; 4 milioni 443 per i maghi e la loro scuola, 1,8 di share. Gran successo.

I numeri sono importanti, perché dimostrano ancora una volta che la favola batte la realtà. O qualcosa di simile alla realtà. Perché la fiction su Sordi, regista Luca Manfredi, appare irreale fin da subito, con la sua «ispirazione» alla vita vera del grande attore. Che era nato nel 1920, quindi nel ’36 e ’37, quando rispettivamente frequentò una scuola di recitazione a Milano e fu cacciato, e a Cinecittà fece la comparsa per «Scipione l’Africano» di Carmine Gallone, aveva 16 e 17 anni. La scelta artistica compiuta, quella di non cambiare interprete, fa sì che il pur ottimo Pesce, che ha quarant’anni, sia assolutamente incredibile nel ruolo di un ragazzino. Cioè, lo sforzo che si richiede al pubblico è veramente eccessivo: dovrebbe destreggiarsi, il pubblico, fra età che non tornano, storie che non conosce e che non costituiscono più un paradigma: per le nuove generazioni. E le vecchie non possono né riconoscersi, né ricordare, è tutto troppo stridente, anche la comparsa di amici e colleghi, come Federico Fellini, sempre troppo giovane con il suo cappellone. Peccato, perché il lavoro è accurato e sincero, e Pesce è davvero molto bravo. Si arriva al 1954, anno di «Un americano a Roma», quando le età cominciano a tornare. Ma lungo tutto il film hanno chiesto a noi spettatori uno straniamento brechtiano troppo difficile da sostenere.

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