DALL’INVIATO A BEIRUT. Il fumo dai cassonetti si alzava ancora quando verso mezzogiorno i primi cortei hanno cominciato scendere verso piazza dei Martiri, Riad al-Sohl, davanti al quartiere dei ministeri, ai piedi del Gran Serail sede del governo, protetto da centinaia di poliziotti e militari. Colonne di motorini, con i clacson in costante funzione, alcuni arrivati dalla profonda periferia del Sud, tutti con le bandiere libanesi. Ragazzi delle scuole, chiuse assieme a banche, uffici e negozi, che marciavano sui detriti lasciati dalla battaglia della notte precedente. Uomini e donne, di tutte le religioni, cristiani, sciiti, sunniti, che risuonavano nei nomi tipici, gli Charbel, Ali, Maruan. L’unico modo per riconoscere le differenze.

La rabbia è esplosa quando giovedì sera, nei dettagli della manovra, è emersa la tassa su WhatsApp, sei dollari al mese. Un provvedimento odioso, perché le compagnie telefoniche sono esose e Internet è l’unico modo di comunicare con i famigliari all’estero. Ieri il governo l’ha ritirata. Ma ormai il fiume era uscito dagli argini. In serata, nonostante le assicurazioni del premier Saad Hariri, i ragazzi hanno ricominciato a spaccare vetrine, bruciare copertoni per bloccare le strade, compresa quella per l’aeroporto. Fra gli slogan urlati è riapparso quello della primavera araba «il popolo vuole la caduta del regime», e poi contro i politici, il presidente Michel Aoun, lo stesso Hariri, il presidente del parlamento, lo sciita Nabih Berri, «tutti ladri».

«Non ce la facciamo più – spiegava Fadi, 47 anni, impiegato in una agenzia di viaggi -. Il regime è corrotto fino agli occhi. Sono al governo soltanto per riempirsi le tasche». Davanti alla grande moschea Abu Ali incitava gli altri: «Basta confessionalismo. Dimettetevi tutti. Non siamo qui solo per WhatsApp, siamo qui per carburante, cibo, pane». Di fronte a una protesta così compatta Hariri ha fatto un secco discorso alla nazione. «Mi dimetterò – ha promesso – se entro 72 ore non riuscirò a trovare una soluzione alla crisi». Il potere è assediato da tutti i lati. I manifestanti hanno cercato di raggiungere la sede della presidenza del parlamento ad Ain el-Tineh. Un corteo ha puntato verso il palazzo presidenziale di Baabda, sulle colline alle spalle della capitale. Il genero del presidente Aoun, il ministro degli Esteri Gibran Bassil, è uscito, ha parlato di «un cambiamento serio: il premier è pronto, Hassan Nasrallah è pronto». Un nuovo governo, ha però precisato, «potrebbe essere molto peggio, il caos».

Dal 2016 il Paese si regge sull’alleanza fra cristiani ed Hezbollah, appoggiata dal sunnita Hariri pur di arrivare al posto che fu del padre Rafik, ucciso nel 2005. Rafik Hariri è stato l’artefice del boom dopo la guerra civile del 1975-1990. Con la ricostruzione, i soldi dai Paesi amici nel Golfo, politiche liberiste estreme, nessun controllo sui flussi di capitali. Oggi il reddito medio è elevato per la regione, 15 mila dollari all’anno. Ma le diseguaglianze sono spaventose. Il Libano è al terzo posto al mondo nella classifica Gini. L’1 per cento della popolazione ha il 58 per cento della ricchezza. Nel quartiere benestante di Ashrafieh la densità di Porche e Ferrari è simile a Montecarlo. In compenso non esistono trasporti pubblici, sanità e scuole pubbliche sono pessime, appena passato l’aeroporto, verso Sud, si è avvolti da fetore di un’immensa discarica a cielo aperto.

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