Il governo dà via libera alle trivellazioni di idrocarburi in Italia e nelle acqua territoriali del Paese, per rilanciare la produzione di gas e sostituire quello che non arriva più dalla Russia. La decisione, che sfida l’opposizione degli ambientalisti, è stata annunciata ieri in conferenza stampa dalla premier Meloni e dai ministri dell’Economia Giorgetti e dell'Ambiente Pichetto Fratin. In tempi rapidi ripartiranno molti dei giacimenti chiusi negli anni scorsi, aumentando la produzione nazionale di metano di due miliardi di metri cubi. Inoltre il limite delle esplorazioni, fin qui vietato fino alle 12 miglia, scende a nove.

Sono in lista di attesa circa 40 permessi di ricerca del petrolio e del metano (non ancora di estrazione industriale) in Adriatico e nello Ionio, ma anche in diverse località della terraferma, inclusa la Pianura padana che è sfruttata da mezzo secolo ma è tutt’ora accreditata di risorse nascoste. Comunque il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, aveva fatto presente l’altro giorno che “l'estrazione di gas può aumentare anche senza bisogno di fare nuove trivellazioni”, semplicemente adeguando i giacimenti che già esistono. La legislazione in vigore negli scorsi anni ha impedito non solo le trivellazioni ma anche i lavori sulle piattaforme esistenti che sono necessari per garantire la continuità della produzione. In parole povere, nel recente passato sono stati proibiti o scoraggiati i “tagliandi” di manutenzione; adesso, eliminando queste restrizioni, si potranno ottenere 2 miliardi di metri cubi annuali supplementari, ottenendo risultati entro un periodo variabile fra i 6 e i 18 mesi a seconda dei singoli impianti su cui mettere le mani.

Disporre di 2 miliardi di metri cubi in più può non sembrare un granché, ma se si considera con quanto impegno e quanta fatica il governo Draghi sia andato in giro per il mondo a raggranellare qualche miliardi di metri cubi in più si intuisce che ogni incremento è prezioso. Un ragionamento analogo, su oiù vasta scala, si può fare per le vere e proprie nuove trivellazioni: sempre nella valutazione del ministero, andando a pescare nel bacino metanifero in Adriatico che l’Italia ha in comune con la Croazia si potranno ricavare almeno altri 70 miliardi di metri cubi di gas, ma questo sulla base di studi di 20 anni fa; con le nuove tecnologie e ai prezzi maggiorati che ci sono ora diventeranno accessibili nuove risorse di metano, forse 300 miliardi di metri cubi, secondo una valutazione non ufficiale di Nomisma Energia.

Nel complesso in Italia sono stati trivellati 7000 pozzi di petrolio e gas in centocinquant’anni, e di questi impianti 300 sono ancora attivi. Una trentina d’anni fa in Italia si estraevano 30 miliardi di metri cubi all’anno, poi è cominciato il declino fino ai 3 attuali. In parte il calo è stato dovuto all’esaurimento delle risorse ma in parte anche allo sfavore con cui è stata vista questa attività; e va detto che non sono stati solo i gruppi ambientalisti a orientare le scelte politiche in questa direzione, ma anche alcune forze che oggi sono al governo e spingono per la ripresa delle trivellazioni.

Quali i motivi dell’opposizione? Una delle preoccupazioni riguarda il rischio di esplosione del pozzo, come capitò a Trecate nel 1994. In quel caso, trattandosi di un impianto sulla terraferma fu possibile riparare le attrezzature in poco tempo, anche se resta controversa l’entità di danni all’ambiente naturale e alla salute umana. Le trivellazioni in mare comportano un rischio maggiore, perché se l’esplosione si verifica su una piattaforma il danno è materialmente più difficile da riparare, inoltre il metano nei giacimenti è quasi sempre associato a una certa quantità (piccola o grande) di petrolio che in caso di incidente rischia di finire in acqua e sulle coste, con danni colossali per l’ambiente e l’economia. Al di là dell’ipotesi di catastrofe, c’è chi prospetta il danno da subsidenza, cioè l’abbassamento della piattaforma continentale o del fondale marino a causa dell’estrazione degli idrocarburi contenuti al loro interno; la questione è controversa, che ci porta prove e chi ritiene che la preoccupazione sia infondata. Un altro possibile danno all’ambiente legato alle trivellazioni riguarda le modalità dell’esplorazione: per sondare il sottosuolo se ne fa un’ecografia, in modo da capire la conformazione in base all’eco di un’onda sonora. In mare una volta si provocavano esplosioni con la dinamite, adesso si ricorre più spesso (non sempre) all’aria compressa. Il rumore disturba gli animali marini e potrebbe far perdere l’orientamento ai cetacei, fino a spingerli ad arenarsi sulle spiagge. Comunque è un fatto non disputato che in Italia le regole sulle trivellazioni sono le più severe del mondo.

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