ROMA. «Il primo processo, quello che vedeva imputati per il pestaggio di Stefano Cucchi tre agenti di polizia penitenziaria, fortunatamente sempre assolti, è stato un processo kafkiano, con gli attuali imputati seduti all'epoca sul banco dei testimoni, con cateteri applicati a Cucchi per comodità e fratture lombari non viste apposta da famosi “professoroni”. Tutto ciò non è successo per sciatteria, ma per uno scientifico depistaggio cominciato la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 alla stazione Appia dei carabinieri, quando il ragazzo venne arrestato». Lo ha detto il pm Giovanni Musarò all'inizio della sua requisitoria nel processo bis in assise contro cinque militari dell'Arma accusati del pestaggio del geometra 31enne che non sarebbe stato collaborativo nella fase del fotosegnalamento: «Non possiamo fare finta che quella notte non sia successo niente e non capire che si stava giocando una partita truccata all'insaputa di tutti», ha aggiunto il magistrato alla presenza in aula anche il procuratore di Roma facente funzioni, Michele Prestipino.

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Il pm ricorda che «Cucchi non è caduto accidentalmente, è stato pestato». E poi: «Non è semplice sintetizzare due anni di un processo così complicato, dopo la morte di Stefano Cucchi è iniziata una seconda storia, nel frattempo ci sono stati altri processi con imputati diversi, per il pestaggio furono accusati prima tre agenti della penitenziaria e poi i medici dell'ospedale Pertini». Musarò ha rimarcato che «quando venne arrestato pesava 43 kg. 37 quando mori. Questo notevole calo ponderale è riconducibile al trauma dovuto al violento pestaggio, non certo a una caduta come si disse all'epoca. Lui perse 6 kg in 6 giorni. Non mangiava perché aveva dolore, stava male. E per il dolore non riusciva neppure a parlare bene».

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Il pm indica tra i testimoni Luigi Lainà, un detenuto alle prese con varie varie patologie, che la sera del 16 ottobre 2009, incrociò Cucchi al centro clinico del carcere di Regina Coeli: «Stava proprio acciaccato de brutto - testimoniò cinque anni dopo con la riapertura dell'inchiesta -, era gonfio come una zampogna sulla parte destra del volto. Anche io sono stato massacrato, ma massacrato a quel livello come Cucchi no. A ridurlo così dovrebbe essere stato un folle o più folli senza scrupoli». Per il pm, le parole dette da Cucchi a Lainà sono il tuo testamento: «Gli ho chiesto di alzarmi la maglietta. E lui mi ha mostrato la schiena: era uno scheletro, sembrava un cane bastonato, roba che neanche ad Auschwitz. Aveva il costato di colore verdognolo-giallo, come quello di una melanzana. Gli ho chiesto se a ridurlo cosi' fosse stato qualcuno della penitenziaria... ero pronto a fare un casino... e invece lui rispose che erano stati i carabinieri che lo avevano arrestato... “Si sono divertiti”, mi aggiunse».

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Per Masarà sono da considerare «pienamente attendibili» le dichiarazioni che i carabinieri della stazione di Tor Vergata, Riccardo Casamassima e Maria Rosati, resero nel maggio del 2014 all'avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia del ragazzo: «Le presunte criticità sollevate dai difensori degli imputati di questo processo non solo non hanno scalfito ma hanno pure dato forza al grado di attendibilità e credibilità di questi due testimoni. Loro sono stati pure intercettati per cui possiamo dire che le testimonianze rese in procura, ovviamente riscontrate, si sono rivelate genuine. Casamassima e Rosati erano l'ultima ruota del carro, possibile che non avevano messo in conto che avrebbero avuto contro tutto e tutti parlando del caso Cucchi?».

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«È successo un casino - era il ricordo di Casamassima - i ragazzi hanno massacrato di botte un arrestato: il maresciallo Roberto Mandolini (imputato di falso e calunnia, ndr) me lo disse portandosi la mano sulla fronte e precipitandosi a parlare con il comandante Enrico Mastronardi della stazione Tor Vergata. Seppi da quella che è poi diventata la mia compagna, Maria Rosati, e che assistette al colloquio perché faceva da autista di Mastronardi, che stavano cercando di scaricare le responsabilità dei carabinieri sulla polizia penitenziaria. Lei capì il nome Cucchi, ma all'epoca non era ancora una vicenda nota perché non era morto». Per il pm, quel colloquio avvenne il 17 ottobre del 2009, due giorni dopo l'arresto di Cucchi. Casamassima e Rosati hanno poi ripetuto nel processo in assise quanto detto in procura. 

 

 

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