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Mafia, 40 anni fa l’uccisione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa

Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa - Ansa

3' di lettura

«La uccisione, quaranta anni or sono, del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie Emanuela Setti Carraro, il ferimento mortale dell’agente Domenico Russo, deceduto alcuni giorni dopo, gettarono Palermo, la Sicilia, il Paese intero nello sgomento. Ancora una volta la ferocia della violenza criminale mafiosa, in un crescendo di arroganza, non risparmiava un servitore della Repubblica né le persone che avevano l’unica colpa di essergli vicine». Lo scrive in un messaggio il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ricordando la figura del prefetto di Palermo nel giorno dell’anniversario della sua morte.

«Quell’estremo gesto di sfida contro un eroe del nostro tempo, un carabiniere protagonista della difesa della democrazia contro il terrorismo - sottolinea Mattarella -, si ritorse contro chi lo aveva voluto. La comunità nazionale, profondamente colpita da quegli avvenimenti, seppe reagire dando prova di compattezza e di unità d’intenti contro i nemici della legalità, delle istituzioni, della convivenza civile. Strumenti più incisivi di azione e di coordinamento vennero messi in campo, facendo tesoro delle esperienze di Dalla Chiesa, rendendo più efficace la strategia di contrasto alle organizzazioni mafiose. Quello sforzo fu sostenuto e accompagnato da un crescente sentimento civico di rigetto e insofferenza verso la mafia».

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«La lezione di vita del prefetto Dalla Chiesa, la memoria delle vittime di quel vile attentato - prosegue il Capo dello Stato - vivono nell’impegno delle donne e degli uomini che nelle istituzioni e nella pubblica amministrazione operano per la difesa della legalità, dei giovani che vogliono costruire una società più giusta e trasparente, dei tanti cittadini che, consapevoli dei loro diritti e doveri, avversano responsabilmente la cultura della sopraffazione e della prevaricazione».

Anche la presidente del Senato Elisabetta Casellati ha ricordato la figura del generale. «Carlo Alberto Dalla Chiesa è un modello di fedeltà allo Stato e ai suoi valori fondamentali. È stato partigiano, ha sconfitto il terrorismo e combattuto Cosa Nostra. Le sue intuizioni, la sua onestà e il suo spirito di sacrificio hanno segnato la nostra storia. È grazie ad esempi come il suo che i nostri giovani crescono in un mondo in cui il sentimento dell’antimafia è più forte e radicato. A 40 anni dalla strage mafiosa di Via Carini, in cui persero la vita anche la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di Polizia Domenico Russo, tutti abbiamo il dovere di ricordarlo e onorarlo».

Nando Dalla Chiesa, oggi a Palermo per partecipare alle commemorazioni per l’anniversario della strage in cui quarant’anni fa fu ucciso il padre rimarca: «Il delitto di mio padre, origine di tanta disperazione, non ha comunque mai intaccato la mia idea su Palermo. Qui ho vissuto i momenti più belli della mia giovinezza. Palermo fa parte di me, mio nonno materno comandava la legione dei carabinieri dove ora mi trovo: sono tante le sensazioni belle che provo».

Riferendosi al rapporto tra Cosa Nostra ed alcuni settori della società in qualche modo contigui alla mafia, sui quali aveva puntato il dito anche il padre durante i suoi 127 giorni a Palermo da prefetto, Nando Dalla Chiesa, che ha insegnato sociologia della criminalità organizzata all’università di Milano, osserva: «Ci sono persone disposte a fare affari con i mafiosi, gente che tresca con chi è mafioso. E, numericamente parlando, sono più dei mafiosi. Se c’è chi lavora contro la mafia c’è anche chi è disponibile a entrare in collusione con essa. E sbaglia chi pensa che la questione riguardi solo il sud perché al nord è cresciuta in maniera esponenziale».

Nando Dalla Chiesa sottolinea anche il significato di cerimonie come quella di oggi per ricordare il sacrificio di chi ha combattuto la mafia: «Abbiamo bisogno di racconti che sappiano spiegare, di storie in cui le parole abbiano senso e vero significato. E non è assolutamente detto che quelle delle autorità non lo abbiano. Se si sfregia il murale dedicato a Paolo Borsellino o la piazzetta dedicata al Beato padre Pino Puglisi, significa che non l’abbiamo saputo raccontare, che non è ancora ben chiaro il valore e lo sforzo di quelle persone».

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