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È morto lo stilista Emanuel Ungaro, il “chirurgo” dell'eleganza

Antonella Amapane
3 minuti di lettura

Attraverso i sogni e le memorie del passato, Emanuel Ungaro cercava di anticipare il futuro, di andare incontro ai desideri delle donne traducendo gli abiti in emozioni. Gonne cortissime a pois da portare con stivali inguinali, caban colorati in jersey abbinati a lunghi blazer oro e abiti in maglina di seta, con puzzle di fantasie floreali che accarezzavano e fasciavano le curve. («Così, appena fuori dall’ufficio le signore toglieranno la giacca rivelando un bel vestito. E saranno pronte per andare a cena», sosteneva). Tutto condito da quel tocco di seducente femminilità che è stato il filo conduttore dello stile mutuato da Emanuel Ungaro.

Lavorava in camice bianco, come un chirurgo dell’eleganza, vezzo che solo i sarti della sua generazione hanno conservato. E disegnando ascoltava brani d’Opera e di musica classica che lo ha sempre influenzato. «Il mio sogno è  fare abiti con gli stessi ritmi e le stesse armonie dei quartetti d’archi di Beethoven».

Personalità
Gelosissimo della sua privacy parlava pochissimo dell’ adorata moglie Laura Bernabei e della figlia Cosima. «La vita privata non c’entra con il lavoro, è mia e basta», diceva. Anche se Laura lo ha sempre affiancato sul lavoro diventando, prima la sua musa, e poi la sua preziosa ambasciatrice. Il giorno prima della sfilata era consuetudine per un ristretto gruppo di persone pranzare nella cucina di casa Ungaro. Dove Laura apparecchiava con gli scampoli della collezione che avrebbe sfilato all’indomani, creando particolari centro tavola con oggetti trovati sulle bancarelle del mercatino delle pulci di Vanves che anticipavano il mood della collezione. Una sorta di percorso immaginifico, raccontato fra una portata e l’altra.

Sempre frutto di viaggi, incontri, emozioni scaturite da brani lirici, in un mix specchio dei tempi. Cuciti con i codici del sex appeal. «Che sono il flusso continuo del mio lavoro, come i bassi nella musica. E’ difficile spiegare in che modo nascono certe intuizioni. Nel ’68 ho deciso di mescolare gli stampati. Non c’era un perché, ho semplicemente tradotto una sensazione», raccontava il couturier passando a salutare gli ospiti. Intuito, sentimenti: è così che nasce un drappeggio. Ungaro dava corpo all’abito “spillandolo” sulla modella, per lui era fondamentale il rapporto diretto con la donna.

«Per creare ho bisogno di essere sedotto, di avere voglia della persona che sta davanti a me... Spero che questa espressione non sia troppo forte», confidava. La cosa più difficile? «Prendere due metri di jersey nero e creare un vestito. Ma è anche difficile avere il coraggio di sostenere le proprie idee, il proprio linguaggio. Quando puntai sugli abbinamenti di fantasie diverse mi massacrarono. Solo il tempo mi ha dato ragione».

La storia
Ungaro è nato a Aix-en-Provence nel 1933, ma i suoi genitori erano di una cittadina pugliese, Francavilla Fontana. «Mio padre Cosimo faceva il sarto, io cucio dall’età di sei anni. Sono cresciuto in una famiglia numerosa. La domenica ci si ritrovava con gli amici per cantare: mio padre adorava l’Opera, io facevo Rodolfo e lui Mimì, le donne preparavano la pasta e le polpette. Ancora adesso quando mi sento giù di morale - confessava- mangio pasta e polpette. Mi confortano». A 22 anni lascia la Provenza, va a Parigi. Per sei anni lavora per il grande Balenciaga: «Un uomo straordinario: rigoroso, onesto, mai frivolo. E’ stato il guru della moda». Da Ungaro si sono vestite molte donne belle e famose: Caroline di Monaco, Isabelle Adjani, Salima Aga Khan, Catherine Deneuve, Jackie Kennedy, Lee Radzwill, la duchessa di Windsor, Lauren Bacall e Ira Furstenberg, le Rothschild.... E la sua prima musa, l’attrice Ainouk Aimeè della quale fu per anni fu molto  innamorato.  L’atelier parigino di Ungaro in Avenue Montaigne aprì i battenti nel ’68: lì nacque la sua couture; mentre le sue quattro collezioni di pr^et-à-porter femminile e le due maschili venivano prodotte in Italia, a Torino, dal Gruppo Gft. Ed è a Torino nel 1985 che Emanuel sfila in una collettiva memorabile al castello di Rivoli , con altri due famosissimi  colleghi prodotti dal gruppo Gft,  Armani e Valentino. Diceva sempre: «A ispirarmi c'èst le reve, toujour le reve. Il sogno, sempre il sogno. Ma mi piacerebbe anchedisegnare una linea di sportiva in cui trasferire i concetti dell’alta moda». Quell’alta moda che per lui significa libertà estrema, un «exercise de style». Perché, sosteneva lo scultore delle forme, la moda da sola è tremendamente noiosa, lo stile invece è qualcosa di sublime. «Io amo tutto ciò che canta. Amo Debussy e il Free Jazz, Paolo Uccello e Motherwell, Proust e Peter Handke, i colori, il colorismo, l'impressionismo. Amo il calore del Sud ed il freddo del Nord. Il couturier esiste per precorrere, indovinare un desiderio in un balzo. Io dovrei stare zitto. Sono i miei abiti a parlare».

Le evoluzioni
Dal '96, la Maison Ungaro entra a far parte del gruppo Ferragamo. Nel maggio del 2004 il couturier si ritira, e il marchio viene acquistato da Aimz Acquisition, dell'imprenditore di origine pakistana Asim Absullah.  Tutti si aspettano che sia il  pupillo di Emanuel, Giambattista Valli che l'ha affiancato per anni, a raccogliere il testimone. Non è così. E Giamba un anno dopo fonda la maison che porta ancora oggi  con successo il suo nome. In casa Ungaro cominciano ad avvicendarsi una girandola di stilisti. I risultati sono modesti. Fino a Giles Deacon che nel 2010 tenta di far ridecollare il brand. Poi lo scettro di direttore creativo passa per un quinquennio nelle mani di  Fausto Puglisi che nel marzo 2017 lo cede al quarantatreene  Marco Colagrossi  (ex consulente per Armani e Dolce & Gabbana) che, pur rispettando il dna della griffe, cerca di traghettarla verso una clientela giovanissima. E abbattendo i prezzi sembra riuscirci.

 

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