Cosa accadrebbe se ci accorgessimo che il Recovery Fund non basta più? Non è una vocazione allarmistica, la mia. Al contrario: la politica deve analizzare il presente, per capire cosa potrà accadere in futuro. E quindi, prevedere e programmare. A mio avviso, il Recovery Fund potrebbe presto risultare insufficiente per il contesto che abbiamo di fronte. Questo per alcuni ordini di motivi.

In primo luogo perché le esigenze finanziarie potrebbero aumentare se nei prossimi mesi la situazione dovesse farsi più complicata. Per altro, i ritardi di Bruxelles nell’adozione del Quadro Finanziario Pluriennale aumentano, e rallenteranno l’adozione delle misure correlate e dello stesso Recovery Fund.

Inoltre, il solo rischio di dover adottare misure di contenimento drastiche, rallenta gli investimenti privati. Rischiamo un secondo rallentamento dell’economia.

Un bravo economista direbbe che in frangenti del genere i risparmiatori preferiscono la liquidità. In altri termini: crescono i depositi bancari, diminuiscono gli investimenti. Allora si fa più pressante la presenza dello Stato per colmare quel vuoto. Attenzione però, perché la sfida che abbiamo di fronte ci impone non soltanto di rimediare agli effetti negativi provocati dal lockdown, ma di risanare un Paese da cima a fondo. Perché nello sfondo degli ultimi decenni la nostra economia ha arrancato e non si è ancora del tutto ripresa dall’ultima crisi finanziaria del 2008. Vale per tutti, anche per il Nord industriale.

Sarà sufficiente qualche accenno: abbiamo imprese di piccole dimensioni, con bassissimi tassi di investimenti in ricerca e sviluppo, caratterizzate da una produzione a basso valore aggiunto. Tutto questo colloca l’Italia in fondo alle classifiche della produttività redatte dall’Ocse. Se si guarda ai dati del Mezzogiorno la situazione peggiore. La Calabria, ad esempio, si colloca al 182° posto su 262 aree europee considerate. Non solo soffriamo di un preoccupante livello di disoccupazione giovanile, ma spesso i giovani incontrano lavori che richiedono competenze diverse o inferiori da quelle acquisite nel percorso di studi.

In altri termini, lo Stato deve porre le condizioni per la ripartenza, a partire dalle corrette linee guida che ha tracciato il governo: digitale, infrastrutture e green deal. Aggiungerei che sarà vitale un poderoso investimento nella Pubblica Amministrazione, in particolare del Mezzogiorno, sulle cui gambe dovranno viaggiare le opere di infrastrutturazione, gli investimenti in Università, ricerca, riconversione ecologica. Tutto questo deve essere fatto tenendo a mente che l’obiettivo di fondo è ridurre le disuguaglianze sociali, con più tutele nel lavoro e soprattutto con una tassazione più equa e progressiva.

Di fronte a questa enormità di impegni e ai rischi ad essi connessi, l’impalcatura europea è ancora troppo rigida e lenta nel dare risposte. E la lentezza si paga a caro prezzo. Credo sia necessario rivedere profondamente i vincoli sul bilancio e sul debito, su cui percepisco una timida apertura in campo europeo. Ma, soprattutto, credo che bisognerà prepararsi ad un nuovo ciclo di trattative per ottenere un piano di investimenti europeo ancora più ambizioso, coordinato e giusto. Questo governo ha le carte in regola per farlo. Tanto prima le forze politiche riusciranno a fare sintesi, tanto più saremo in grado di ripetere l’ultimo grande successo del nostro governo a Bruxelles.

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