Tre mesi di slittamento per le elezioni regionali e comunali previste a maggio. È quanto prevede la bozza del decreto coronavirus, che prevede di prorogare di 90 giorni il mandato delle giunte regionali a statuto ordinario in scadenza. Non è dunque un testo definitivo ed è per questo che Palazzo Chigi specifica che ancora “nessuna decisione è stata deliberata dal Governo e che qualsiasi scelta in questa direzione sarà assunta solo dopo avere consultato le forze politiche di maggioranza e di opposizione, nonché coinvolgendo le stesse regioni, nel pieno rispetto delle loro prerogative costituzionali”.

Il testo provvisorio, che si basa sulle proposte arrivate ieri sera dai vari ministeri, recita: “Gli organi elettivi delle regioni a statuto ordinario il cui mandato scade entro il 31 luglio 2020, durano in carica 5 anni e 3 mesi”. Il riferimento è ai consigli regionali di Veneto, Liguria, Toscana, Marche, Campania e Puglia, che sarebbero stati rieletti tra un paio di mesi. Per questo motivo, le Giunte potranno essere operative nella pienezza dei poteri loro attribuiti per tutto il tempo della proroga. Spetterà poi alle Regioni l’indizione delle elezioni sulla base della rispettiva legislazione che, se necessario, potranno provvedere a modificare. Il particolare è spiegato da una nota tecnica del ministero per i Rapporti con il Parlamento in merito al testo, provvisorio, del decreto coronavirus.

La stessa norme interviene anche sulla forchetta temporale per le elezioni dei consigli comunali, previste per il turno annuale ordinario, limitatamente all’anno 2020, fissandola in una domenica compresa tra il 15 ottobre e il 15 dicembre 2020. La proposta è stata avanzata dal ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà. Al voto per eleggere i consigli comunali andranno oltre 1000 comuni, tra cui quindici capoluoghi di provincia e quattro di regione.

Verso lo slittamento anche il termine entro il quale è indetto il referendum per il taglio dei parlamentari, che sarà “fissato in duecentoquaranta giorni”. Anche in questo caso il rinvio è previsto dalla bozza di decreto legge contenente le misure per far fronte all’emergenza Coronavirus. L’ordinanza che ha ammesso il referendum risale a fine gennaio, dunque i 240 giorni scadrebbero a fine settembre. La data potrebbe essere fissata tra i 50 e i 70 giorni successivi e quindi la consultazione può slittare fino all’autunno. Smentita, invece, l’ipotesi circolata nelle ultime ore circa un rinvio della consultazione popolare al 2021.

Altra questione è quella della piena funzionalità di Camera e Senato in questo periodo di emergenza. In tal senso, mercoledì prossimo è stato annullato il question time in programma a Montecitorio, dove invece ci sarà una comunicazione del presidente Roberto Fico. Quest’ultimo, inoltre, ha anche assicurato che “davanti alla situazione di emergenza che il Paese sta vivendo il Parlamento ha fatto e continuerà a fare la sua parte. Ha dimostrato di poter e dover lavorare in una condizione inedita” ha detto Fico su Facebook, sottolineando “l’impegno di continuare su questa scia individuando le modalità e i tempi più adeguati per garantire la continuità della funzione legislativa”.

Modalità e tempi su cui però la politica sta discutendo, in particolare sull’ipotesi del voto a distanza per permettere ai parlamentari di restare in casa. Eventualità su cui l’arco parlamentare è diviso. ItaliaViva è fortemente contraria (Renzi: “Parlamento non deve chiudere mai, neanche in guerra”), Il Movimento 5 Stelle preferirebbe altre soluzioni (il capogruppo al Senato Perilli: “Per ora voto a distanza escluso, spero non avvenga), secondo Delrio (Pd) la “democrazia non si può sospendere. Ci sono da convertire i decreti del governo per affrontare l’emergenza #coronavirus. La priorità è essere al servizio del paese. Stiamo studiando modalità eccezionali”. Chi sembra essere possibilista è la Lega di Salvini, con il capogruppo al Senato Massimiliano Romeo che parla di “ipotesi di buonsenso, anche se difficile da attuare“: “Magari – ha detto – si può pensare di far esprimere i parlamentari dagli uffici dove solitamente lavorano”.

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