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Catania, 46 arresti per mafia: azzerato il clan Brunetto, gestiva droga ed estorsioni

Il clan mafioso Brunetto è stato azzerato la scorsa notte grazie a un’operazione che ha portato all’arresto di 46 persone nella province di Catania, Messina, Trapani e Rimini. A far scattare le manette sono stati i carabinieri, coordinati dal comando provinciale di Catania in seguito a un’ordinanza del gip della città siciliana.
A cura di Davide Falcioni
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Giuseppe Andò
Giuseppe Andò

Il clan mafioso Brunetto è stato azzerato la scorsa notte grazie a un'operazione che ha portato all'arresto di 46 persone nella province di Catania, Messina, Trapani e Rimini. A far scattare le manette sono stati i carabinieri, coordinati dal comando provinciale di Catania in seguito a un'ordinanza del gip della città siciliana. I  arrestati sono accusati, a vario titolo, di associazione mafiosa, associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di stupefacenti, detenzione e spaccio di stupefacenti, estorsione aggravata dal metodo mafioso, lesioni aggravate dal metodo mafioso. Le indagini sul territorio sono state condotte dai militari della Compagnia di Giarre dal 2017 al 2018 poi riscontrate dalle dichiarazioni di svariati collaboratori di giustizia.

Le indagini si sono concentrate sulla frangia giarrese del clan Brunetto, legata alla famiglia mafiosa dei Santapaola-Ercolano di Cosa Nostra catanese, che dettava legge tra Giarre, Mascali, Fiumefreddo di Sicilia, Castiglione di Sicilia. L'inchiesta ha definito la struttura organizzativa del clan, le posizioni di vertice e i ruoli degli indagati. Il gruppo criminale gestiva, tra le altre cose, la piazza dello spaccio nel quartiere popolare Jungo di Giarre insieme ai Santapaola, reclutando numerosi pusher, organizzando i loro turni, stipendiandoli e mantenendo anche le loro famiglie. Il clan inoltre imponeva il pizzo a diversi esercenti e riscuoteva i crediti legati agli stupefacenti con pestaggi punendo sistematicamente chi si rifiutava di spacciare o effettuare rapine. Gli introiti quotidiani derivanti dello spaccio  erano quantificabili in svariate migliaia di euro. I quartieri popolari consentivano di usufruire di un collaudato sistema di sentinelle e offrivano un gran numero di nascondigli per le dosi costituendo per i tossicodipendenti una sorta di punto stabile di approvvigionamento.

Ai vertici del clan, secondo gli inquirenti, c'erano i componenti della famiglia Andò, capeggiata da Giuseppe – venditore ambulante – insieme ai figli e ai nipoti. L'uomo collocava il suo  camion in modo tutt'altro che casuale, controllando costantemente i movimenti delle pattuglie nel primo e più importante incrocio cittadino dopo l’uscita autostradale di Giarre. Il camion dell'uomo inoltre fungeva da "quartier generale" per incontrare altri sodali, fornitori di droga, creditori, membri di altri clan o per convocare pusher “indisciplinati” nei turni e punirli con detrazioni dello stipendio di 250 euro alla settimana. Quando lo spacciatore veniva stato arrestato, il sodalizio provvedeva a pagare il “mantenimento” alla sua famiglia.

L'inchiesta ha inoltre dimostrato come il clan puntasse al ruolo di “autorità mafiosa” di riferimento nel territorio a cui chiedere il permesso prima di avviare qualsiasi attività imprenditoriale, compreso il montaggio itinerante di giostre (“prima che entri il camion lì dentro, devi venire a parlare con me!”), ipotizzando ritorsioni in caso contrario: “Se monta gli brucio tutte cose!”. Un altro aspetto rilevante scoperto dagli inquirenti è che durante una delle molteplici perquisizioni in covi a disposizione dell’organizzazione criminale, è stata accertata anche una sorta di schedatura degli elettori del popoloso quartiere “Jungo”, verosimilmente per controllare il voto nelle sezioni.

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