15 marzo 2019 - 22:29

Le proteste dei governi europei
dove la Cina investe molto di più

Ma l’Italia rischia il condizionamento se non attrarrà anche capitali da altri Paesi. Da noi gli investimenti sono lo 0,75% del Pil, nel Regno Unito si sale al 2,5, in Finlandia al 3,8

di Federico Fubini

Il presidente cinese Xi Jinping (Epa) Il presidente cinese Xi Jinping (Epa)
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A luglio scorso è successo qualcosa senza precedenti in Germania. Il governo ha bloccato la scalata di Leifeld, un’azienda leader nell’ingegneria dei materiali, da parte della cinese Yantai Taihai. Per la prima volta Berlino stava mettendo il veto su un’operazione di mercato per motivi puramente politici. Pochi a Pechino se lo aspettavano, dopo due decenni durante i quali le imprese della Repubblica popolare avevano visto gli europei competere con foga per attrarre il loro interesse. Sempre in Germania poco più di un anno fa Geely, un gruppo privato che ha legami evidenti con la nomenklatura di Pechino, aveva speso 7,3 miliardi di euro per diventare primo socio al 9,7% di Daimler. Geely del resto aveva già preso il controllo di Volvo in Svezia, di Saxo Bank in Danimarca e di Levc, l’azienda che produce i taxi di Londra. Non sono state scorribande isolate. Sempre l’anno scorso Legend Holding, il gruppo basato in Cina che nell’informatica controlla Lenovo, ha comprato Banque Internationale di Lussemburgo. L’anno prima Cic, uno dei fondi sovrani di Pechino, ha preso il colosso europeo della logistica Logicor. Nel complesso dal 2010 i gruppi della Repubblica popolare hanno speso 145 miliardi di euro in acquisti in Europa — secondo un rapporto dei giorni scorsi di Merics e Rhodium Group — se si contano solo le operazioni per quote oltre il 10% del capitale.

L’italia e il flusso di denaro in Oriente

L’Italia ha partecipato poco a questo flusso di denaro da Oriente: in tutto 15,3 miliardi dall’inizio del secolo, uno stock di investimenti pari allo 0,75% del Pil attuale. Se si esclude l’operazione di Geely su Daimler, la casa madre di Mercedes, è una quota pari a quella degli investimenti diretti esteri cinesi in Germania (in proporzione alla taglia dell’economia). La presenza cinese è invece in proporzione più pesante in Olanda (1,4% del Pil), in Irlanda (1,3%), in Danimarca e Svezia (1,2%) e molto più forte in Gran Bretagna (2,5%) o in Finlandia (3,8%). Dev’esserci dunque una dose di ipocrisia — o spirito di concorrenza fra europei — in certe preoccupazioni di questi giorni all’ipotesi di una crescita della presenza cinese in Italia. A maggior ragione, quando le proteste vengono da Paesi nei quali i gruppi di Pechino controllano già quote più ampie dell’economia e snodi nevralgici come le banche. Una differenza fra l’Italia e quei governi dell’Europa del Nord è però che questi hanno aperto ai capitali cinesi con discrezione: senza la teatralità di firme solenni su un memorandum per la cosiddetta Via della Seta.

Investitori scoraggiati

Per capire se il regime del presidente Xi Jinping possa fare dell’Italia un cavallo di Troia nell’Unione europea, bisogna però guardare altri fattori. Non il peso degli investimenti cinesi, ma le possibili alternative disponibili per un paese se questi venissero meno. Qui l’Italia appare più vulnerabile, perché l’interesse di chi detiene del capitale di altre parti del mondo resta tiepido. La Gran Bretagna o la Germania per esempio attraggono ogni anno investimenti diretti dall’estero per il 3% del loro reddito (Londra era al 15% prima del referendum su Brexit), mentre l’Italia per gran parte degli anni è sotto all’1%. Visto da Milano o da Roma, ogni euro offerto dalla Cina rappresenta una fetta molto più pesante nel totale delle risorse in arrivo da fuori dei confini. La potenziale capacità di condizionamento di Pechino sarebbe dunque in proporzione maggiore. Avere una giustizia, una burocrazia e infrastrutture che scoraggiano gli investitori americani, tedeschi o canadesi indebolisce di fatto l’Italia di fronte alla Cina sul piano politico. Al contrario, risolvere quei problemi e attrarre così capitali da aree diverse rafforzerebbe la capacità del Paese di agire senza condizionamenti, se su questo fronte qualcuno nel governo facesse qualcosa. Non si tratta di fermare i cinesi, ma di garantirsi dalle pressioni diventando interessanti anche per altri operatori.

Il caso Portogallo

Non è un caso se in Europa Pechino ha alleati soprattutto nelle capitali nelle quali domina la classifica degli investitori. In Portogallo i cinesi sono leader nella filiera dell’elettricità, nel sistema finanziario, oltre che nella sanità privata. E il premier di Lisbona António Costa è il solo ad essersi opposto a una proposta di riforma dell’Antitrust Ue che contrasterebbe lo strapotere dei conglomerati cinesi. E quando la Ue ha cercato di passare risoluzioni di condanna per le violazioni dei diritti umani da parte di Pechino, Grecia e Ungheria hanno messi il veto. Xi Jinping, per entrambe, è un partner commerciale troppo importante per non dargli un po’ ascolto.

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