14 ottobre 2019 - 22:06

Torna Assad, i curdi perdono il loro sogno di libertà

Alla frontiera si ammassano i civili in fuga dopo l’accordo con Damasco.
E mentre già sventola la bandiera siriana cresce il rimpianto per l’autonomia persa

di Lorenzo Cremonesi, inviato a Derek

Torna Assad, i curdi perdono il loro sogno di libertà
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Stanno qualche ora in fila, attendono pazienti. Salvo poi venire ricacciati indietro con i bambini, le valigie troppo grandi, le mogli troppo coperte che sudano copiosamente sotto il sole ancora caldo di metà ottobre, l’aria secca, le sporte di vestiti pesanti. «Partono adesso quelli di noi che in passato hanno combattuto contro il regime di Bashar Assad, oppure i giovani renitenti alla leva. Non vogliono essere costretti nelle unità di punizione dell’esercito nazionale siriano, mandate subito a combattere e morire in prima linea contro i turchi», confida un quarantenne dall’aria distinta. Lascia capire di essere un alto esponente dell’intelligence di Rojava, ma si mette in coda paziente come tanti altri. Il centinaio di chilometri di viaggio dalla città di Qamishli al confine di Semalka sul Tigri rivela la profondità del dramma che sta traumatizzando i curdi siriani. In passato questa regione collinosa, verde, puntellata di pozzi petroliferi, è sempre stata considerata una delle più stabili per le decine di villaggi a popolazione quasi totalmente curda.

E anche adesso a prima vista poco sembra cambiato. I posti di blocco paiono ancora saldamente in mano ai soldati curdi, le loro bandiere sventolano dovunque, come sempre. Ad ogni incrocio, sugli edifici più alti delle caserme, continua a troneggiare la gigantografia di «Apo», Abdullah Ocalan, il leader storico e massimo ideologo del socialismo militare curdo. Non importa che da un ventennio sia chiuso in una prigione turca. Per Erdogan è il diavolo in persona, incarna l’alleanza militante e «terroristica» tra il Pkk, il Partito dei Lavoratori curdo in Turchia, e i combattenti di Rojava. Un fronte che per il presidente turco va eliminato a qualsiasi prezzo. Se però si scava un poco non è facile scoprire la nuova fragilità dell’intero sistema di autogoverno costruito negli ultimi otto anni. «Non sappiamo cosa troverete domani. Noi curdi vogliamo controllare da soli il confine con l’Iraq. Ma non è detto che da Damasco non cerchino di mandare i loro agenti dei servizi per monitorare i transiti», ammette sotto voce una delle principali addette a timbrare i passaporti al valico di Semalka. L’altra notte le guardie mandavano via le auto delle famiglie che volevano accamparsi nelle vicinanze per essere prime la mattina dopo all’apertura degli uffici. «Qui ci sono installazioni militari. L’aviazione turca opera spesso di notte, potrebbe bombardare in ogni momento», spiegavano. Deserta dopo il tramonto anche la vicina cittadina di Derek. È stata abbellita e ampliata negli ultimi anni con alberghi e ristoranti, soprattutto grazie ai copiosi finanziamenti americani, per offrire un centro di ritrovo e svago ai dirigenti di Rojava. Proprio per questo ora viene disertata, temuta.

Ma il discorso che va per la maggiore nei caffè, tra la gente riguarda adesso la valenza reale della nuova alleanza con il regime di Damasco, sotto l’egida di Mosca, per fare fronte comune contro l’invasione turca. Ancora non si era asciugato due sere fa l’inchiostro delle firme, che già i soldati di Bashar Assad irrompevano verso le linee dei combattimenti passando per Hasakah, Ain Issa, Tel Tamar, sino al vecchio fronte di Manbij e quello nuovo tra Ras Al Ayn e Tel Abyad.

I capi del Rojava continuano a ribadire che per ora si tratta solo di intese militari «preliminari», dettate all’emergenza. «I contenuti politici dell’accordo vanno ancora messi a punto. Lo faremo in un secondo tempo», dice tra i tanti Badran Jia Kurd. Un altro, Aldar Xelil, alla stampa internazionale minimizza spiegando che è un adattamento pragmatico «figlio delle difficoltà». In realtà, sul campo si notano cambiamenti importanti. L’altra sera a Qamishli erano sparite le consuete pattuglie curde che si muovono nei quartieri controllati dai fedeli al regime di Bashar. Damasco ha sempre negato qualsiasi forma di autonomia curda e nulla lascia credere abbia cambiato politica. Tutt’altro. Per la prima volta dal ritiro dopo lo scoppio delle rivolte nel 2011, i suoi soldati tornano a marciare per le strade del Nordest siriano. Nulla lascia credere che smetteranno di farlo.

Uno degli articoli in discussione nell’accordo contempla che le unità curde vengano assorbite in quelle dell’esercito regolare. Inoltre su tutti gli edifici pubblici dell’intera Rojava dovrà sventolare la bandiera nazionale. Una mossa non solo simbolica. Il regime espande la sovranità. Non sono pochi adesso i curdi che iniziano a mettere in dubbio il valore del tributo di sangue pagato dalle loro forze armate nella guerra contro Isis: oltre 11.000 morti e quasi il doppio di feriti. Un numero enorme, specie se si pensa che Rojava conta in tutto meno di 60.000 effettivi tra combattenti uomini e donne. «Valeva la pena perdere tanti soldati alla luce del tradimento americano?», si chiedeva ieri un giovane giornalista della televisione locale. Lo smarrimento è palpabile. Il futuro un’incognita inquietante. Rispondeva disilluso un suo collega: «Possiamo dire che abbiamo vissuto otto anni inebrianti di libertà, almeno saranno un punto fermo nei libri della storia del popolo curdo. Ma li stiamo perdendo».

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