Roberto Maroni è morto, l’ex ministro dell’Interno aveva 67 anni

di Marco Cremonesi

La malattia e il ritiro dalla corsa nel 2021 dell’ex governatore lombardo ed ex segretario federale della Lega, morto oggi per un tumore. I funerali si terranno venerdì alle 11 alla Basilica di San Vittore a Varese

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Roberto Maroni è morto martedì, alle 4 di notte, nella sua casa di Lozza, un paese del varesotto. L’ex ministro dell’Interno e segretario della Lega aveva 67 anni ed era malato di tumore. Qui l’ultima intervista al «Corriere»: «Per guidare la Lega serve un moderato. La mia malattia? Sto facendo tutte le cure». Il ricordo della famiglia: «Fino all’ultimo, a chi gli chiedeva come stava, ha sempre risposto: “Bene”. Sei stato un grande marito, padre e amico». I funerali si terranno venerdì alle 11 alla Basilica di San Vittore a Varese.

Quante vite, Bobo. Tre volte ministro e una volta vicepremier, segretario della Lega autodimesso senza che nessuno glielo chiedesse, governatore che improvvisamente lasciò la sua Lombardia. Controcanto perenne di chiunque guidasse la Lega, persino quando a guidarla era lui: «Ah! Ci fosse un segretario…». Il «barbaro sognante» che mai rinunciò a ricordare di essere, soprattutto, «un velista» e un «soul boy».

Non c’era, Roberto Maroni, quel 12 aprile 1984 quando a Varese fu fondata da Umberto Bossi la «Lega autonomista lombarda». Di Bossi era il miglior amico, con lui aveva già fondato la Società Cooperativa Editoriale Nord Ovest, insieme facevano notte a discutere o a far gran scritte sui muri, perché i muri «sono i libri dei popoli». Si erano conosciuti perché il futuro capo della Lega aveva letto una lettera di Maroni alla Prealpina contro una lottizzazione a Lozza, la piccola patria «del» Bobo.

Ma alla fondazione, lui non c’era. Sempre un po’ così, quel suo cercare di essere sempre da un’altra parte. Esserci, ma senza farsi ingoiare. Leghista senza mai rinnegare la sinistra degli anni verdi, a cui semmai riservava l’ironia sorniona che era la sua seconda pelle. Ne fa spesso le spese uno dei suoi migliori amici, il giornalista dell’Unità Carlo Brambilla. Proprio Bossi, e non voleva fargli un complimento, definì Maroni «un aquilone che sta lontano da chi ha in mano il filo».

Voleva studiare filosofia e fare il giornalista, fece giurisprudenza e l’avvocato. Bossi lo voleva a tempo pieno nella Lega e lui non voleva mollare l’ufficio legale di Avon («Facevo meglio a restar là»), ma già nel 1990 è consigliere comunale a Varese. Pochi anni più tardi, primo ministro dell’Interno non democristiano, firmò il decreto Biondi che fu ribattezzato «salvaladri» e il giorno dopo se ne pentì.

Poco dopo, Bossi decise di sfiduciare il primo governo Berlusconi ma lui no, si oppose.

Il popolo leghista non la prese bene, era furioso, ma Bossi lo salvò dalle ire della base. Perché Maroni era anche quello: poco propenso allo scontro, ma capace fino all’ultimo giorno di far sentire e valere il proprio punto: «Ho perso? Ma no, ho tenuto la posizione…».

L’anno dopo, nel 1996, lui già entrato e uscito dal Viminale per la prima volta (saranno due), si guadagna l’unica condanna della sua vita, quella per aver addentato il polpaccio di uno dei poliziotti che stavano perquisendo via Bellerio a causa della fondazione della Guardia nazionale padana. Dai tafferugli uscì in barella. Anche lì, aveva tenuto la posizione.

Molti leghisti hanno sempre messo in dubbio il suo afflato indipendentista, e il dubbio è legittimo, però fu pure «primo ministro» della Padania e presidente del Parlamento del Nord. Salvini allora militava nei comunisti padani, Maroni stava con i Democratici Europei, riformisti e laburisti.

Al Viminale si conquistò la palma di «miglior ministro dell’interno di sempre». Lo dicevano in tanti, tutti, soprattutto da sinistra, ma la consacrazione fu quando certificò il titolo Roberto Saviano, nel pieno del successo di Gomorra. Si narra che a convincere dell’incarico uno scettico Oscar Luigi Scalfaro fu l’allora capo della polizia Vincenzo Parisi, dopo una cena con Bossi e lo stesso Maroni. Fatto sta che da ministro partecipò con il suo amato gruppo, il «Distretto 51», al festival soul di Porretta terme. Scritta sulla maglietta: «Radio Mafia». Da ministro, la prima dichiarazione fu: «La Lega federalista, con un leghista al Viminale, diventa il garante dell’unità d’Italia».

Per anni tutti si sono chiesti se nelle frequenti sconfessioni delle trattative costruite da Bobo da parte di Bossi, il giovane di Lozza giocasse di ruolo e sempre di concerto con il Capo tonante: «A Bobo ho scaldato il latte tutte le mattine, ma è il nostro braccio debole e va amputato».

Si sa soltanto che tutto finì una sera, correva il 2011, quando Giancarlo Giorgetti portò ai leghisti il messaggio del «Capo»: vietato invitare Maroni a qualsiasi evento della Lega. Lo si accusa di intelligenza con il nemico, i giornalisti.

Ultima goccia, l’aver raccontato alla stampa la storia degli investimenti in diamanti. È la «fatwa».

È lì che entra in scena Matteo Salvini: già consapevole della potenza dei social, in 48 ore organizza per «il» Bobo 200 incontri pubblici. È la premessa per la «notte delle ramazze» a Bergamo, la sera in cui Bossi si scusò con i militanti. Pochi giorni ancora e darà le dimissioni.

Maroni è il candidato naturale alla successione, ma non sono in pochi ad essere convinti che, senza la spinta della fatwa e della «damnatio memoriae», Bobo si sarebbe disposto a sbiadire sullo sfondo. La battaglia, però, lo galvanizza, e nel luglio 2012 è alla guida della Lega. Un ruolo che ama poco («Ah! Ci fosse un segretario…»).

Silvio Berlusconi lo vuole a tutti costi governatore della Lombardia. Una partita tutt’altro che facile, la Lega era ai minimi storici e anche il centrodestra stava tutt’altro che bene. A complicare le cose, la candidatura dell’ex sindaco Gabriele Albertini. Ma alla fine, la sfida è vinta.

Poi, di nuovo il Maroni sfuggente: l’8 gennaio del 2018 annuncia a sorpresa che non si sarebbe ricandidato.

Si parla di un suo ritorno in Parlamento, di concerto con Berlusconi. Non avverrà: lui prende, e con 5 amici attraversa in barca a vela l’Atlantico.

Dopo, si dedica a quello che fanno gli ex presidenti di successo: board di aziende private, alta formazione universitaria, collabora con il Foglio. Lo scorso ottobre, un altro dei colpi «alla Bobo»: entra nella Consulta contro il caporalato chiamato dal ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. L’avversaria pubblica di Matteo Salvini. Pensa anche di tornare alla politica attiva, candidandosi a sindaco di Varese.

Ma nel giugno 2021 annuncia il ritiro dalla corsa: motivi di salute. Un tumore, che aveva causato il malore in casa nel gennaio del 2021. Ne era seguito un intervento, al Besta di Milano. All’uscita dall’ospedale, Maroni aveva scritto un messaggio: «Finalmente sono tornato. Mai mulà!». Poche settimane fa, l’ultima intervista al «Corriere». «Com’è cambiato il mio punto di vista sulle cose dop la malattia? Non molto. Certo che la malattia che mi ha colpito è una cosa che non trascuro, facendo tutte le cure necessarie. Ho capito che tra le cose importanti non c’è la politica con la “p” minuscola».

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22 novembre 2022 (modifica il 23 novembre 2022 | 07:52)